domenica 4 marzo 2012

DUKE ELLINGTON: BIOGRAFIA


DUKE ELLINGTON
Jazz americano, jazz europeo e così via. Per me non esistono confini per il jazz e neppure colore. Bianco, nero, giallo. Se un musicista sa suonare, se conosce l'armonia e si esprime con swing, fa del jazz. E lo fa in Africa, in Russia o in America.
(Duke Ellington)


Duke Ellington ripeteva spesso di non preoccuparsi dei posteri, lui infatti, si preoccupava di fare buona musica per quel tempo senza voler raggiungere l’immortalità artistica, questo perché si rendeva conto delle particolari caratteristiche della sua musica. Inoltre aggiungeva che coloro che ascolteranno, in un futuro, i suoi dischi, dovranno farsi suoi contemporanei: senza quelle esatte voci strumentali, senza gli inimitabili glissando e il fraseggio di Johnny Hodges, senza il poderoso suono del baritono di Carney, senza le note “brucianti” e grevi della tromba di Cootie Williams o quelle terse e acutissime di Cat Anderson, senza quelle voci, spesso combinate in modo poco ortodosso, quella musica perderebbe i suoi caratteri: i colori, gli accenti, la forza poderosa, l’affascinante atmosfera, quasi tutto ciò che conta.
L’attività di compositore, di arrangiatore e di direttore di Duke Ellington è inscindibile: le sue musiche nascevano per le formazioni di cui disponeva, e queste, a sua volta, vivevano in funzione di quelle. Per questo i suoi uomini non andarono mai in vacanza, e cercò di tenere uniti a lui il più possibile i solisti migliori.



Era nato il 29 aprile del 1899 in una decorosa famiglia della piccola borghesia nera: suo padre lavorava come maggiordomo presso un medico e poi fu impiegato in un ufficio della Marina. Al figlio Edward (soprannominato da un vicino di casa Duke) volle dare una buona educazione, gli fece prendere lezioni di piano fin da piccolo, gli fece frequentare le scuole medie e a diciotto anni, il giovane Duke, rinunciò ad una borsa di studio per entrare in una scuola d’arte a Brooklyn. Voleva darsi da fare ed essere indipendente, aveva talento come musicista.
All’inizio la vita fu dura, fece molti lavori, durante la prima guerra mondiale fece il fattorino, dipinse manifesti e insegne e soprattutto lavorava come pianista.
Presto i suoi guadagni si fecero abbondanti e appena diciannovenne si sposò con Edna Thompson, che nel 1919 gli diede un figlio, Mercer.
Ormai la sua fama di musicista era consolidata e Duke sentì il bisogno di approfondire gli studi di armonia. Prima Doc Perry, un caporchestra con cui collaborava, e poi Henry Grant lo guidarono nello studio dell’armonia. I suoi veri maestri furono i tanti musicisti conosciuti nei caffè, nelle sale da ballo. Uno su tutti, gli capitò di ascoltarlo a New York, in un’esecuzione di Carolina shout: James P. Johnson. Ellington imparò a suonare quel brano talmente bene che qualche tempo dopo, a Washington, lo stesso autore ascoltandolo nel proprio brano lo applaudì con calore.
“Non suonai nient’altro, quella sera, ma mi limitai ad ascoltare quel grande stando appoggiato al pianoforte. Credo che quello che assorbii quella sera valesse quanto un semestre di studio al conservatorio” ricordò lo stesso Duke.
Alcuni musicisti arrivati da New York, che si erano raccolti intorno a Duke, raccontavano la vita musicale ad Harlem e accendevano i sogni degli amici, tanto che ad un certo punto decisero di trasferirsi tutti a New York. Ma il lavoro si dimostrò discontinuo e i quattrini finirono presto: i giovani di Washington si consolarono passando da un locale all’altro per ascoltare i propri idoli, Johnson, Waller e Willie “the lion” Smith, i maestri dello stride piano, che li accoglievano sempre con cordialità.
L’avventura si concluse quando Duke trovando per terra quindici dollari potè finanziare il viaggio di ritorno a casa.
Nel 1923 in città tornò Fats Waller che assicurò agli amici che avrebbe potuto procurare loro del lavoro nella Grande Mela. I giovani non se lo fecero ripetere e partirono alla volta di New York.
Le promesse di Waller si dimostrarono false e i giovani amici si ritrovarono squattrinati e senza lavoro. Per fortuna venne in loro soccorso Ada Smith, che li fece assumere al Barron’s, qualche mese dopo esordirono all’Hollywood Cafè nella 49a Strada. La clientela era stranamente variegata, turisti, membri della buona società, divi dello spettacolo e gangster tutti assieme per ascoltare della buona musica.
L’orchestra si fece onore e rimase a suonare nel locale per quattro anni. Fu in quel locale che la musica di Ellington e della sua orchestra assunse i colori e le caratteristiche che tutti oggi conoscono. Quanto valesse quella musica apparve presto chiaro a certi musicisti che suonavano nei migliori locali della città e che si facevano vedere ai concerti di Duke. Una sera apparve anche Irving Mills, un impresario musicale, che avrebbe avuto molta importanza nella carriera di Ellington e che alcuni anni dopo scrisse: “Fui immediatamente impressionato da quel giovanotto che, come fu presto evidente, non era un pianista o un caporchestra come gli altri, ma un artista veramente creativo, in cui si celava il potenziale per una carriera senza limiti”.
Mills diede l’occasione a Duke di incidere molti dischi, soprattutto come accompagnatore di cantanti, ed indirizzo lo stile dell’orchestra verso lo stile giungla che andava in voga in quegl’anni.
In seno all’orchestra però quello stile stava assumendo caratteri peculiari. Fu soprattutto l’uso, da parte degli ottoni, di svariate sordine, con cui il suono si trasformava e diventava più rauco e un po’ selvaggio. Ben presto si inserirono nell’orchestra dei grandissimi solisti, che passeranno alla storia, fra tutti dobbiamo ricordare sicuramente Harry Carney, al sax baritono, e Johnny Hodges, al sassofono che vennero assunti giovanissimi nel 1927 e 1928. Da ricordare anche l’acquisto di Barney Bigard, uno dei migliori clarinettisti di New Orleans e quello di Cootie Williams (trombettista) nel 1929.
Ora la formazione era completa e Duke seppe costruire un edificio sonoro fatto di colori vivi e di suoni ora dolcissimi ora aspri che seppe colpire gli ascoltatori del Cotton Club, uno dei locali storici di Harlem, dove l’orchestra si esibì per tre anni a partire dal 1927. Il locale poteva contenere fino a cinquecento persone ed in mezzo ai molti ricchi e benestanti clienti c’erano anche personalità che venivano solo per ascoltare l’orchestra ellingtoniana: come Stravinsky, che, appena sbarcato in terra americana, volle correre al Cotton Club per ascoltare “quelle magnifiche sinfonie jazz di Ellington”; come Leopold Stokowsky, che, dopo aver parlato di musica con lui lo invitò ad un suo concerto alla Carnegie Hall; come George Gershwin, che non nascose mai la sua ammirazione per il compositore di Washington; come Paul Whiteman, che cercava di rubacchiare delle idee.



Al 1927 e negli seguenti anni di permanenza al Cotton Club risalgono le prime opere veramente significative di Ellington. Il sognante e statico Mood Indigo arriva nel 1930 e resta tuttora una delle gemme più fulgide della lunga collana messa insieme da Duke in oltre mezzo secolo di intensa attività.



Il 1931 vide la fine della prima scrittura al Cotton Club e vide la nascita di altre importanti opere: il dinamico Rockin’ in rhythm, il raffinato Mystery song e, soprattutto, Creole Rhapsody che fu il primo saggio di ampio respiro e che segnò l’inizio della carriera di Duke come fecondo compositore di suites jazzistiche.
Venne il momento per Ellington della prima tournée in Europa, nel 1933 esordì a Londra dove fu un grande successo, ma dopo alcune proteste dei puristi del jazz, che gli imputavano troppi brani commerciali all’interno del programma del concerto, il mitico compositore decise di accontentarli con un concerto per palati fini. La critica fu entusiasta e ogni onore fu riservato all’ospite americano in terra britannica.
Anche Parigi andò in delirio e qualche anno dopo Duke ricordava così quell’avventura: “L’atmosfera che trovammo in Europa, l’amicizia, il serio interesse dimostrato per la nostra musica dai critici e dai musicisti di tutti i generi ci infuse uno spirito nuovo e ci imbarcammo per tornare in patria pieni di euforia, solo in parte attribuibile allo champagne e al cognac”.
La fama dell’orchestra ormai era all’apice: tournée, film, dischi e concerti si susseguivano a ritmi elevati.
Nel 1935 importanti furono alcuni suoi brani che, prima di ogni altro musicista jazz, furono dedicati specificatamente ad ogni suo solista: clarinet lament, per Barney Bigard, Echoes of Harlem, per Cootie Williams, Yearning for love, per Lawrence Brawn, sono state le prime di una serie di esecuzioni che avranno un unico protagonista. Concerto for Cootie sarebbe stata di gran lunga la più brillante composizione di questo genere di Duke, con la collaborazione, ovviamente, di Cootie.



Ormai maturo compositore e con un’orchestra unita da molti anni, sul finire degli anni Trenta, la produzione di Ellington divenne eccellente. Alcuni dischi vennero incisi solo con formazioni più ristrette e con i migliori solisti della sua compagine. La sua musica, ora, non soltanto era costruita con maggior sapienza armonica, ma aveva più swing ed era più disinvolta.
In quel periodo ci fu il ritorno al Cotton Club, in quel periodo compose Caravan (brano che divrrà uno standard suonato da migliaia di musicisti in futuro).



Il 1939 segna un anno di svolta cruciale nella carriera di Ellington, non tanto per la seconda tournée europea, quanto per l’avvicendamento di Irving Mills, che lo aveva un po’ frenato, con Billy Strayhorn, collaborazione che durò fino al 1967.
A quell’epoca Strayhorn era un ventiquattrenne di belle speranze, una solida base musicale classica e una maniera di comporre raffinata e fantasiosa. Fra i primi pezzi che Billy sottopose a Duke, che lo conobbe mentre faceva il commesso in un drugstore, c’erano composizioni ammirevoli come Lush life e Something to live for; poco dopo uscirono dalla sua penna Chelsea Bridge e, soprattutto, Take the A train, che dal 1941 sarebbe rimasto la sigla dell’orchestra e uno dei brani più suonati nel mondo del jazz.



In breve divenne il braccio destro di Duke, il suo alter ego, l’amico fraterno, il consigliere, così lo descrisse in una dichiarazione “Io gli sono debitore per gran parte del mio coraggio dal 1939 in poi. Era il mio ascoltatore, il mio critico più attendibile… Quando si fa della musica, quando bisogna decidere quale direzione prendere in un brano, e ogni volta che mi domandavo quale soluzione, armonica o melodica, si dovesse adottare mi rivolgevo a Billy Strayhorn. Ne parlavamo insieme e poi tutto diventava chiaro.”
Un giorno Strayhorn parlando dell’affiatamento che c’era tra lui e Duke raccontò: “molte volte quando Ellington era in tournée da qualche parte mi telefonava per farmi sentire al piano un qualche motivo che gli era balenato in testa e mi diceva di lavorarci sopra, poi alla prima occasione di incontro gli facevo sentire il risultato”.
Gli anni della loro collaborazione furono sicuramente i più felici per Duke e la sua orchestra, nessuno dei due si preoccupava di far risaltare i risultati personali ma a loro interessava solo la musica, infatti è difficile attribuire all’uno o all’altro l’immensa produzione di quegli anni.
L’entrata di Strayhorn, a cui fecero seguito a breve distanza quelle di due straordinari solisti come Jimmy Blanton e Ben Webster, segnò l’inizio di un periodo di splendore per l’orchestra.
Nel 1940, con la partenza di Cootie Williams verso l’orchestra di Benny Goodman, il suono dell’orchestra cambiò: il pesò delle esecuzioni, che fino ad allora era sostenuto dagli ottoni, si spostò verso i sassofoni, questo contribuì ulteriormente ad ammorbidire il sound dell’orchestra.



In tre anni le composizioni e le incisioni eccellenti si sprecano, tanto che l’elenco sarebbe lunghissimo. Oltre ai brani già menzionati in precedenza dobbiamo ricordare: Cotton tail, pezzo per Ben Webster, Koko, un blues bizzarro, lo scattante C jam blues, gli swinganti In a mellotone e Main stem, l’esotico e fortunatissimo Perdido e l’elenco potrebbe proseguire per pagine.



Ellington si sentiva ormai pronto per nuove sfide e accolse di buon grado quella propostagli dal suo agente William Morris: produrre una suite da presentare alla Carnegie Hall. Nacque così quella, che ancora oggi, appare la sua opera più importante, Black, Brown and Beige¸ una composizione della durata di poco meno di un’ora che offre un’ottima abbondanza di temi e di atmosfere. La suite, che fu eseguita per la prima volta il 23 gennaio 1943, si propone di illustrare la drammatica storia nel nero in America. Alcune sue parti sono splendide, a cominciare da Come Sunday, basato su un tema spiritual, o come West Indian dance, dove si vuole celebrare il contributo di sangue dato dal nero al Paese di adozione, o come il solenne Work song.



Da allora le opere estese di Ellington si moltiplicarono fino a toccare la cinquantina alla fine della sua carriera.
Da menzionare, comunque, sono sicuramente The Deep South suit,eseguita nel 1946, e The Liberian suite, composta l’anno dopo su commissione del governo liberiano per festeggiare il centenario della fondazione della piccola repubblica africana.
Nella primavera del 1948 Ellington torna in Europa, senza la sua orchestra, ma solo con un paio di elementi, per alcune esibizioni con un trio inglese che servirono a risvegliare l’interesse degli impresari europei che lo invitarono con tutta la formazione nel 1950. Furono ovazioni in ogni posto dove l’orchestra si fermò a suonare, fu un successo meritato perché oltre che le vecchie composizioni, in quest’occasione, furono presentati nuovi brani, suonati eccellentemente dai jazzmen. Dopo una meravigliosa tournée nei teatri di New York si concluse il periodo più bello dell’orchestra e di Duke Ellington.
Nel 1951 si aprì un periodo di crisi per l’orchestra, dopo le defezioni di alcuni solisti di spicco dell’orchestra, Sonny Greer, Lawrence Brown e soprattutto Johnny Hodge (che volle costituire un suo complesso), e un contratto con la Capitol, i cui dirigenti furono probabilmente responsabili di alcuni scivoloni dell’orchestra, la compagnia nel giro di alcuni anni non riuscì che a comporre solo brani di discreta qualità. Eccezione fa Satin Doll una bella canzone che venne firmata in quegli anni.



Forse la cosa più significativa di quel periodo, in cui l’orchestra venne detronizzata da quella di Basie, furono proprio alcuni assolo al piano di Ellington, del 1953, che dimostrò quanto poco attenti erano stati i critici a dichiarare modeste le sue capacità pianistiche.
Il fondo si toccò nel 1953/54 dove l’orchestra perse altri due solisti importanti quali Willie Smith e Bellson. La ripresa iniziò nel biennio successivo quando, recuperato Hodges e trovato un buon batterista, l’orchestra si presentò al Festival di Newport del 1956 dove, grazie anche all’acquisto di Paul Gonsalves che aveva preso il posto di Ben Webster, riportò un successo delirante.
Dopo di allora non ci fu più dubbio per nessuno che quella di Ellington fosse la più grande orchestra di jazz del mondo.
La formazione di dimostrava eccelsa, con la sua sezione ance, in cui erano presenti Johnny Hodges, Harry Carney, Jimmy Hamilton, Paul Gonsalves e Russell Procope ma era di alto livello anche la sezione trombe in cui militavano Cat Anderson, Willie Cook, Clarke Terry e Ray Nance. Non stupisce che proprio allora Duke volle incidere di nuovo su disco i suoi pezzi migliori e che, poco più tardi, nel 1957, abbia trovato l’ispirazione per realizzare due fiori all’occhiello della sua carriera: le suites A drum is a woman e Such sweet thunder.



Nei due anni successivi l’orchestra intraprese un altro giro per l’Europa dove ci fu l’incontro con la regina di Inghilterra, in cui Duke sfoggiò tutto il suo charme e che indusse Ellington a comporre la The Queen’s suit: che con un gesto grandioso e galante poi fu incisa su disco e l’unico esemplare fu donato alla regale ispiratrice. Tuttavia l’incisione fu pubblicata postuma sotto l’etichetta Pablo nel 1976.
L’attività scorre senza grosse cose da ricordare fino al 1962 quando, recuperati Cootie Williams e Lawrence Brown, l’orchestra incise il primo album per la Reprise, e in particolare Afro Bossa, un pittoresco brano.



Nel 1963 Duke ritornò in Europa, dove in pratica fece tournées ogni anno successivamente. Di questi concerti resta una buona documentazione grazie al disco “The symphonic Ellington” dove Duke si avvalse dell’aiuto di orchestre sinfoniche di varie città quali Amburgo, Stoccolma, Parigi e Milano. Volle dimostrare che anche le orchestre sinfoniche possono swingare e ci riuscì: dimostrò che certi “ibridi” musicali sono leciti quando vengono realizzati da musicisti della statura di Ellington.
La popolarità di Ellington crebbe ancora di più quando il Dipartimento di Stato americano organizzò un tour di concerti che toccò vari Paesi del Medio Oriente, dell’India, il Pakistan e Ceylon. Avrebbe dovuto durare tre mesi ma fu interrotto ad Ankara in segno di lutto per l’assassinio del Presidente Kennedy. Furono, comunque, dei clamorosi successi come quelli avuti alcuni mesi dopo in Europa e poco dopo in Giappone.
Si può dire tranquillamente che la vena compositiva di Duke era sempre molto attiva, anche se, raggiunta la maturità il compositore non sembrava più interessato a brani di breve durata come Sophisticated Lady o Solitud, ma voleva cimentarsi in opere di ampio respiro con cui la sua vena creativa potesse esplodere dando sfogo a tutte le sue idee.
Proprio in quel periodo di intensa attività, il 16 settembre 1965, realizzò un progetto a cui pensava da tempo: nella Cattedrale della Grazia di San Francisco andò in scena il suo primo concerto di musica sacra. Anche se l’acustica della chiesa non era ottimale, il concerto ebbe momenti di grande bellezza che poterono essere apprezzati dopo che fu registrato il disco.
Le polemiche non si fecero attendere. La Conferenza di Washington dei Ministri della Chiesa Battista tramite il reverendo John D. Bussey che, pur ammettendo di non aver ascoltato le musiche del concerto, sentì di doverlo condannare e di opporsi ad una replica perché la vita di Ellington così “legata al lavoro nei locali notturni” era “in contrasto con tutto ciò che la Chiesa rappresentava”, intelligente e colto com’era Ellington, rispose “io sono solo un fattorino che cerca di portare a destinazione un messaggio. Se io fossi un lavapiatti in un locale notturno, forse non potrei metter piede in una chiesa?...Forse Dio non accetta più i peccatori?”.
Nonostante l’opinione dei bigotti il concerto di musica sacra fu replicato in una cinquantina di chiese in tutta America ed in un paio di questi concerti l’orchestra si trovò a duettare con la meravigliosa Ella Fitzgerald.
In quegli anni a far da guardiano ai conti dell’orchestra ci pensò Mercer Ellington, figlio di Duke, assunto come amministratore e terza tromba, che riuscì a comporre qualche buon componimento ed a procurare qualche buon solista all’orchestra. Ma non riuscì mai a migliorare la disciplina dei suoi componenti, ormai famosi in tutto il mondo per lo scarso rispetto degli orari, per i pisolini schiacciati tra un assolo ed un altro e per l’apparente noia con cui facevano il proprio lavoro.
In mezzo a tanti lieti eventi, uno tragico: la scomparsa di Billy Strayhorn che aveva dovuto soccombere ad una malattia incurabile il 31 maggio 1967. Fu un colpo durissimo per Duke e per l’orchestra tutta che gli volle dedicare un album molto bello, che fu intitolato affettuosamente “…and his mother called him Bill”.
La morte del suo amico fraterno non rallentò l’infernale ritmo di lavoro di Duke, che, il 19 gennaio 1968, presentò nella più grande chiesa degli Stati Uniti il suo secondo concerto di musica sacra. Questa volta non ci furono proteste da parte delle autorità ecclesiastiche.
Chi pensava che la perdita di Strayhorn si sarebbe fatta sentire sulla qualità della musica di Ellington si dovette ricredere presto: la registrazione di un album contenente un concerto dato all’università di Yale, e l’ottima riuscita di un nuovo lavoro, la Latin American suite, prova che la vena di compositore di Ellington era tutt’altro che inaridita.
L’anno dopo, in occasione del suo settantesimo compleanno, si ebbe modo di misurare la stima del mondo verso Duke, il quale accettava con autoironia ogni tributo. C’era ormai la gara da parte delle università per attribuirgli le lauree ad honorem (ne collezionò quindici), le riviste gli assegnavano almeno un primo posto nei loro referendum annuali. Non si commosse neppure quando il presidente Nixon, per i suoi settant’anni, gli conferì la Presidental Medal of Freedom (la più alta onorificenza civile americana) nel corso di un ricevimento alla Casa Bianca in suo onore, a cui furono invitati molti jazzmen.
Ellington anche a questa veneranda età continuò a girare il mondo in lungo e in largo per dare concerti, senza concedersi una vacanza. Alla fine del 1969 era in Europa qualche mese più tardi nel Sud Est asiatico; nel 1970/71 ancora nel Vecchio Continente, in una tournée che si spinse fino in Russia, continuando poi nell’America Latina.
Come un sovrano di altri tempi, si portava appresso, dovunque andasse, una numerosa corte, in cui ammetteva anche altre persone, a cui assegnava un preciso status di vassalli o valletti. Con loro conversava, era difficile che qualcuno potesse fargli cambiare idea o che lo influenzasse in qualche modo. Quando parlava della musica, del jazz in particolare, non lasciava margine alle opinioni altrui: i suoi giudizi erano sentenze irrevocabili, finivano per diventare proverbi.



A volte era generoso altre stranamente avaro, era un insieme di contraddizioni, tale che alcuni solisti che hanno lavorato per decenni assieme a lui non riuscirono a dare un giudizio definitivo su di lui. Ma su una cosa tutti erano d’accordo: Duke voleva essere lasciato in pace. Sfuggiva i fastidi, schivava le situazioni incresciose. Per evitarle, per evitare di doversi scontrare contro qualcuno, tollerava qualsiasi cosa, anche sul palcoscenico. Per molti anni fece finta di non accorgersi che alcuni componenti prendevano posto con molto ritardo o che altri non si reggevano in piedi, niente riusciva a scalfire la sua espressione ufficialmente sempre risplendente.
Ellington lavorò finchè ebbe fiato, con folle ostinazione: benché i medici gli avessero lasciato poche speranza si rifiutava di credere di avere i mesi contati.
Compì il settantacinquesimo compleanno in un letto di ospedale a New York, e lì poté leggere gli affettuosi messaggi di decine di jazzmen inviati tramite le colonne del Down Beat:

“Tutti i musicisti dovrebbero un certo giorno riunirsi per mettersi in ginocchio e dirti grazie” Miles Davis

“La tua musica descrive nel modo più perfetto la visione morale, il coraggio e l’inesauribile ricchezza di risorse che hanno caratterizzato la lotta del popolo nero per la giustizia in questa società” Archie Shepp

Il 24 maggio 1976 Duke Ellington cessò di vivere. Al suo funerale c’erano più di diecimila persone.
Quasi come un evento soprannaturale dieci giorni prima morì Paul Gonsalves e qualche mese dopo Harry Carey, i suoi solisti più fidati. Della sua orchestra restò solo il nome e la direzione del figlio, i solisti superstiti si dileguarono come quando in uno sciame muore l’ape regina. Quel 24 maggio non morì solo Ellington ma morì anche un sogno, un sogno che resterà per sempre negli annali della storia del jazz, un sogno chiamato “The Duke Orchestra”.

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