martedì 10 gennaio 2012

INTERVISTA A FRANCESCO BEARZATTI

Cari amici, questa sera gironzolando per le vie virtuali di internet mi sono imbattuto in un articolo di "Musica Jazz", in cui veniva intervistato Francesco Bearzatti, avendovi proposto un suo cd pochi giorni fa mi sembrava giusto completare il post con questa interessante intervista. Il nostro sassofonista è stato premiato poco tempo fa come miglior musicista europeo dell'anno...e ovviamente i nostri cari mezzi di comunicazione erano troppo impegnati a farci sapere le avventure del grande fratello di turno o a farci vedere che si menano in qualche "talent" show a caso...
Vi propongo qui l'intevista integrale, molto interessante.



Il sassofonista friulano sarà ricompensato domani sera a Parigi

Yes gli Yes, il gruppo di Jon Anderson, Bill Bruford, Steve Howe. Non un combo jazz, ma un pezzo di storia del progressive rock britannico. Li ascoltava Bearzatti poco prima che lo intercettassimo nella sua casa parigina: due locali in cui i bagagli si fanno a disfano come in una camera d’albergo. Dopo Franco D’Andrea, tocca al sassofonista friulano essere ricompensato come musicista europeo dell’anno, a riprova che non c’è crisi in Europa per i jazzisti italiani.

Francesco, che rapporto hai con i premi?
Direi che è un po’ cambiato negli ultimi anni perché ne ho vinti tanti. Prima mi sembravano una cosa irraggiungibile e non ci pensavo per niente. Adesso, che da qualche tempo qualche cosa mi arriva sempre, ho ovviamente un rapporto diverso. Devo dire che quello preso in Francia era assolutamente inaspettato e mi ha colto abbastanza di sorpresa.

Ma i premi servono al jazz?
Al jazz sicuramente no. Servono invece al musicista, per avere un po’ di ufficio stampa e della pubblicità, in pratica quello che un artista dovrebbe avere e di solito non ha, soprattutto in questa musica che è sempre low budget.
E se ai premi aggiungessimo un assegnino come capita ogni tanto negli Stati Uniti?
Be’ sarebbe più interessante, soprattutto per me in questo momento.
Paroxysmal Postural 

Hai riflettuto su quali potrebbero essere le ragioni di questa vittoria?
Sicuramente è dovuta a un insieme di fattori. Intanto perché soprattutto in Francia, Tinissima sta andando molto bene, tant’è che Arte e Mezzo [canali televisivi] gli hanno dedicato dei documentari e più in generale il progetto sta godendo di una certa diffusione. Poi perché nell’ultimo anno ho lavorato molto come sideman: sono usciti parecchi lavori e tutti concentrati in un breve arco di tempo. Tra le ragioni includerei anche il fatto che suono in progetti e contesti molto distanti tra di loro, muovendomi dal jazz all’improvvisazione totale, dal rock all’elettronica. Insomma, anche senza volerlo mi sono fatto notare. [copertina di «Paroxsysmal Postural Vertigo» (Auand), una delle collaborazioni 2011 di Bearzatti]
 
L'Académie du jazz ti consegna il premio come musicista europeo dell'anno. Domanda da un milione di dollari: ma il jazz europeo esiste oppure no?
A parte il fatto che tutti i musicisti nati in Europa sono europei, credo che esista una matrice legata al vecchio continente, dotata di una propria forza, personalità ed estetica. Il problema è che pure lei rischia l'estinzione: con la globalizzazione, per fortuna o purtroppo, veniamo tutti influenzati allo stesso modo. Vorrei sentire più spesso musiche autoctone, come mi capita quando viaggio e incontro musicisti locali in paesi lontani. Trovo troppe uguaglianze all’interno del pop e del jazz contemporanei, e questo, francamente, non è che mi piaccia molto.
Mo Avast Band 

Ti bollano come un rocker che suona jazz, ma in realtà le tue aperture nei confronti dei generi sono molteplici.
Scherzi, chi mi conosce sa bene che ascolto di tutto. Anche all’interno dello stesso jazz mi piacciono situazioni diverse come il solo, il duo con pianoforte o altri strumenti. Mi piace tantissimo suonare gli standard e spostarmi tra l’acustico e l’elettronico. Impazzisco per il blues che è l’anima di tutto, almeno per me. Ed infatti vengo dal rock blues inglese: Led Zeppelin, John Mayall, Rolling Stones. Gente da tre accordi e via. Quando ascolto quella roba lì mi si accappona ancora la pelle. [immagine: Mauro Gargano, «Mo' Avast Band» (Note Sonanti)]

Quindi ti capita ancora di ascoltare «questa roba»?
Peccato che sei arrivato un po’ in ritardo perché prima avevo gli Yes «a palla». Io ascolto di tutto.

A novembre sei stato a New York per celebrare i dieci anni dell'Auand. C'è un bel video ricordo in cui non sembri entusiasta della New York di oggigiorno... 
Sai, una volta il Downtown Manhattan era un brulicare di punk, gente alternativa, jazzisti, barboni, c’era di tutto. Adesso è vero che è molto meno pericoloso però è anche molto meno interessante.

Anche musicalmente?
Secondo me sì. C’è meno offerta, ci sono molti meno club, molta meno musica per strada. C’è sempre una grossissima energia, però la città è un po’ più pulitina e i musicisti sono sempre più scolarizzati, farciti di Berklee e università. A volte manca un po’ di verità, quel vissuto che ci vuole.

Più in generale, com’è andata la cinque giorni newyorkese?
È andata bene. Credo che Marco [Valente, produttore dell'etichetta] sia riuscito a fare un piccolo miracolo. Portare in giro una realtà musicale con punte anche estreme, se vogliamo, non è certo una cosa facile. Organizzare una cosa di quel tipo è persino difficile per chi abita a Manhattan o Brooklyn.


Immagino che a Valente devi ancora qualcosa…
A Marco sono debitore perché ha creduto in me. Dopo un primo lavoro mainstream [«Suspended Steps», (Caligola, 1998)], avevo ritrovato tutte le radici rock grazie ai Kaiser Lupovitz, assieme a Zeno De Rossi ed Enrico Terragnoli, un grandissimo musicista, e così chiesi a Marco se avrei potuto fare un disco con lui. Figurati, ero italiano con un lavoro mainstream alle spalle. Gli inviai qualcosa dei Lupovitz e accettò immediatamente. Da lì è nata una bellissima amicizia che l'ha portato a produrmi interamente il disco dei Sax Pistols, «Stolen Days» (2006), con Dan Weiss e Stomu Takeishi, un esperimento poco capito ma a mio avviso molto interessante.

Non è un progetto morto?
No, assolutamente. Abbiamo parlato recentemente di fare qualcosa quest’anno. Il problema di quel gruppo sta nel fatto che non tutti accettano il sax suonato come una chitarra distorta e a volumi assurdi. Nei club non ci vogliono, nei festival nemmeno…

Neanche nei centri sociali?
Sì, nei centri sociali ci vogliono, il problema è pagare i musicisti americani.

Come hai conosciuto Weiss e Takemishi?
Tramite Marco. In quel gruppo ho portato musica e idee, ma i musicisti me li ha suggeriti lui. Grandissima l’intuizione di chiamare un bassista-rumorista come Stomu: fantastica!

Sempre per restare in casa Auand: e il Bizart Trio?
Il Bizart, al contrario dei Pistols, per adesso è morto; anche perché Emmanuel Bex ha fatto un gruppo per impostazione molto simile al mio.
VirusBartok 

Hai anticipato la domanda. Volevo chiederti quanto del Bizart c’è nel trio di Bex e viceversa?
Numericamente ci sono due terzi del Bizart, io e Emmanuel, però l’intenzione è chiaramente diversa, sebbene all’inizio lui volesse fare qualcosa simile al primo disco dei Bizart [«Virus», 2003, copertina a dx]. Non credo che ci sia riuscito, nel senso che i suoi dischi sono più una «cosa» à la Bex che altro. È una musica diversa, completamente diversa.

Il suo ultimo lavoro, «Open Gate feat. Béla Bartók» (Plus Loin Music, 2011) [sopra, copertina a sx], sonda il mondo di Bartók.
Esatto. È stata una bella sfida per me che non suonavo musica classica da vent’anni.

Immagino che bisognasse leggere molto?
L’ottanta per cento del lavoro è musica scritta e decisamente complicata. Un bel casino, ma molto eccitante come sfida.
ModottiTinissima 

Veniamo al Tinissima Quartet, che in Francia gode di molta più stima di quanta non ne abbia in Italia. Paradossale non trovi?
Ultimamente, soprattutto per quanto riguarda le premiazioni, abbiamo raccolto qualche frutto, ma di concerti ne continuiamo a fare pochi: se guardi i programmi dei festival sono gli stessi da vent’anni, a parte qualche nuovo arrivato. La situazione è un po’ cambiata ma non di tanto. Qui in Francia facciamo tanti festival importanti; anzi, direi i più importanti. Mezzo e Arte ci hanno dedicato dei film e stanno succedendo tante cose anche al di fuori dall’Europa.

A Umbria Jazz 2011 avete fatto un’esibizione «spacca tutto». Non avete mai pensato di registrare live?
Eccome. Intanto perché ho parecchi live del Tinissima che sono delle «bestie»: esce tutta la forza del gruppo. Dovremmo fare un Best Of e ci stiamo pensando. Prima però, priorità al nuovo album che sarà una botta di rock allucinante. Andremo giù durissimi. Voglio mettere in piedi uno spettacolo che sia quasi psichedelico e credo che con questo gruppo posso proprio permetterlo.

Hai già pensato al soggetto?
Farò un collage: prenderò i temi di Monk e l’incollerò sui riff più leggendari del rock. L’idea iniziale è mia, ma i ragazzi sono talmente entusiasti che mi hanno subissato di suggerimenti e arrangiamenti. Questa volta non ho preparato niente: andiamo in studio e suoniamo.

Come lavori con il gruppo?
Finora ho sempre scritto tutto. Per Tina [«Suite For Tina Modotti» (Parco della Musica, 2008)] arrivai in studio e presentai il progetto, mentre per Malcolm [«X (Suite For Malcolm») (Parco della musica, 2010)] mi sono limitato a portare le parti e il gruppo si è acceso da solo, senza aprire bocca. Considero Giovanni [Falzone], Danilo [Gallo] e Zeno [De Rossi] i miglior musicisti in circolazione. Tra di noi c’è grande affiatamento e questo nuovo lavoro sarà ancora più corale.


Su un altro versante si situa invece il solo Duke Ellington Sound Of Love.
Eh sì, volevo fare qualcosa in solitaria e ho pensato a due compositori che mi piace strapazzare ma soprattutto suonare e interpretare come Ellington e Billy Strayhorn. Suono i pezzi del primo con il tenore e quelli del secondo con il clarinetto e ogni tanto li metto assieme. Senza troppa retorica è un omaggio con molto amore all’opera di questi compositori.

Non usi l’elettronica?
No. L’idea è quella di fare qualcosa senza elettronica in un momento in cui si abusa di essa. Mi presento sul palco con gli strumenti nudi e crudi e cerco di tirar fuori tutto quello che posso. Saranno pure inflazionati, ma secondo me si può ancora dire molto sia al tenore, sia al clarinetto.

Va bene fare suonare il sax come una chitarra elettrica, ma quali sono i tuoi chitarristi preferiti?
In assoluto Jimmy Page, anche perché i Led Zeppelin sono il mio gruppo preferito, e poi Jimi Hendrix. Mi piacciono anche chitarristi più «moderni» come Van Halen, invece non mi piacciono quelli che tendono alla fusion come Satriani e compagnia bella. Inoltre, mi piace pensare a Tinissima come a una rock band che viaggia assieme, si diverte, fa casino quand'è in tour e spacca quand'è sul palco.


Restiamo in tema. Il nuovo disco comprenderà un lavoro visuale come nel caso di «X (Suite For Malcolm)»?
È ancora un work in progress, però sicuramente la copertina sarà qualcosa di particolare. Ho intenzione di metterci lo zampino e di far partecipare Francesco Chiacchio anche questa volta. Siccome farò un collage di musiche, sto pensando di utilizzare la stessa tecnica per la copertina. Per «X (Suite For Malcolm)» abbiamo lavorato in parallelo: immagini da un lato e musica dall’altro. È stato molto interessante, diverso dal solito.

Domanda di rito: progetti per il 2012?
Sicuramente uscirà «Monk & Roll» del Tinissima e poi credo che registrerò in duo con un pianista francese, ma non voglio parlarne troppo...
Move Is 

Bruno Angelini?
No, ma faremo delle cose assieme. Recentemente, è uscito «Move Is» (re:think-artrecords, 2011), in trio con Thierry Peala. Voce, sassofono e pianoforte. Un disco davvero particolare e dal packaging fantastico.

Sempre con Angelini, hai partecipato a «Mo’ Avast Band» (Note Sonanti, 2011), primo disco da leader del contrabbassista Mauro Gargano.
Dopo quasi tre anni finalmente è uscito. Mauro è riuscito a fare un lavoro che sta lasciando un piccolo segno, ed è una cosa importante se consideriamo che è la prima opera a suo nome.
Bloom 
Piccola curiosità. Non è che un disco punk-jazz come «Bloomdaddies» di Seamus Blake (Criss Cross, 1996) ti ha per caso influenzato?
No, lo conosco bene ma non è un disco che mi ha influenzato. Seamus è un musicista della mia età che ha fatto studi classici, ascoltato grunge, rock e via dicendo. Tutti i musicisti della mia generazione che hanno quelle tipo di influenze, non le nascondono e non hanno paura di esprimerle, vanno in quella direzione, non c’è niente da fare.

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